Parliamo con Luana Rigolli di fotografia e dell’Isola degli Arrusi

Cosa ci colpisce dell’arte? Questa è una domanda che riceviamo spesso.

La risposta non è la bellezza, perché l’arte non deve essere obbligatoriamente bella: quello che cerchiamo è la sua capacità di trasmetterci nuovi stimoli, di colpire il nostro stomaco con emozioni, sia positive che negative, l’entrare in contatto con persone e tematiche vicine e lontane a noi.

Questo è esattamente quello che abbiamo provato davanti al progetto della fotografa Luana Rigolli, intitolato “L’Isola degli Arrusi”, e così abbiamo chiesto a Luana di parlare insieme del suo lavoro di fotografa, di come è nato e di come si è sviluppato questo lavoro.

L’arte può essere un lavoro?

Il percorso di studi di Luana è iniziato con il diploma al Liceo Scientifico e proseguito con una laurea in Ingegneria Civile, una facoltà che forse non corrisponde all’immaginario che abbiamo di una fotografa. Ma sono proprio queste le storie che ci appassionano e vogliamo approfondire. Ecco che cosa ci ha raccontato:

Sono laureata in Ingegneria Civile, e il motivo di questa laurea non lo so bene neanche io. O meglio, diciamo che mi sono fatta influenzare troppo da mia mamma ed è più per non fare un torto a lei se ho deciso di fare questa università. Premetto che anche per quanto riguarda le scuole superiori avevo ben chiaro che avrei voluto fare il Liceo Artistico, ma mia mamma me lo ha impedito, dicendomi chiaramente che non avrei trovato mai un lavoro e sarei andata a vivere sotto ad un ponte.

E così ho “scelto” il Liceo Scientifico e di conseguenza ho voluto aggravare poi la situazione iscrivendomi a Ingegneria. Il mio “problema” era che ero molto brava a scuola, soprattutto nelle materie scientifiche, e in famiglia pensavano che la mia bravura sarebbe stata sprecata se mi fossi dedicata a materie artistiche. Un altro motivo per cui poi ho deciso di studiare Ingegneria era perché in qualche modo mi sentivo di fare un regalo a mia mamma, una casalinga che ha cresciuto con mio papà, operaio, tre figli e ha riposto in noi il suo “riscatto”. Non volevo deluderla e soprattutto non avevo la forza di andarle contro. Non sono comunque pentita della scelta, l’ingegneria mi ha dato il metodo, che per le mie ricerche è fondamentale, e mi ha dato un po’ di rigore anche nello sguardo, soprattutto per quanto riguarda le foto di interni e architettura (che sono la parte più commerciale del mio lavoro).

Inoltre cosa non da poco, grazie all’ingegneria ho lavorato qualche anno come dipendente, ho ricevuto regolarmente uno stipendio per alcuni anni, e questo mi ha permesso di mettere da parte un po’ di soldi per comprarmi l’attrezzatura fotografica e per aiutarmi a decidere di buttarmi a tempo pieno nel mondo della fotografia.

Quante volte, prima di iniziare un percorso creativo e artistico, ci siamo sentiti ripetere che era maglio fare qualcosa di più “classico” e “standard”? Però negli anni abbiamo imparato una cosa, che ci accomuna a Luana: le strade che perseguiamo, anche se non sono quelle che avremmo scelto o quelle più adatte a noi, ci possono lasciare comunque qualcosa di molto importante, come è stato per lei!

Luana Rigolli, foto di Enrico Doria

Come si scopre qual è la propria vera strada?

E così arriviamo a quel momento in cui tutto diventa chiaro e la propria vocazione non può più passare in secondo piano. Così è stato per Luana che ha capito di essere una fotografa:

Ho iniziato a scattare l’ultimo anno di università, per caso.

A quei tempi mi mantenevo facendo lavori di hostess e promoter, e in uno di questi lavori dovevo accompagnare l’agente delle Camel (le sigarette) nei tabacchini della zona di Piacenza e dell’ Oltrepò Pavese per proporre delle promozioni ai clienti fumatori. Nelle pause capitava spesso di pranzare nei centri commerciali e siccome l’agente con cui lavoravo doveva comprare una macchina fotografica, lo accompagnavo anche nei vari reparti di elettronica. Alla fine è successo che ho comprato una macchina fotografica anche io, una piccola compattina, che però mi ha da subito regalato emozioni. Da allora la fotografia non mi ha mai abbandonata.

Come dicevo, dopo la laurea, ho lavorato come ingegnere per circa 6 anni, gli ultimi due anni però la cooperativa di costruzioni in cui lavoravo è entrata in crisi e avevano iniziato a far fare delle giornate di cassa integrazione ai dipendenti. In quel momento ho iniziato a lavorare come assistente di altri fotografi tra Reggio Emilia e Mantova; è stato lì che ho imparato il lavoro della fotografia. Erano servizi per la maggior parte in studio ed ho imparato a lavorare con le luci e a relazionarmi con i clienti. Ho fotografato un po’ di tutto, dal food alla moda, dai matrimoni agli interni. E questo è andato avanti per circa 4 anni. Poi nel 2017 mi sono trasferita a Milano, e lì ho iniziato a lavorare solo con la fotografia, sia come assistente che come freelance. Nel frattempo avevo anche fatto un corso di fotogiornalismo e quindi mi sono formata nella creazione dei miei progetti personali di documentazione.

Diciamo che la crisi economica dell’azienda dove lavoravo come ingegnere per me è stata una grande opportunità per seguire la mia vera indole, senza più timori di deludere la mamma“.

Il progetto L’Isola degli Arrusi

Ci siamo imbattute nel progetto di Luana per caso, durante la domenica grigia e piovosa del weekend di inaugurazione del Festival di Fotografia Europea di Reggio Emilia. A due passi dal nostro studio, i volti di 45 uomini ci fissavamo appesi sul muro di una piazza: un’installazione site specific che ci ha completamente travolte.

Il progetto è “L’isola degli arrusi” e i protagonisti sono 45 uomini di Catania che nel 1939 sono stati arrestati e mandati al confino sull’isola di San Domino, Tremiti, a più di 700 km di distanza.

La loro colpa? Essere omosessuali. 

Gli omosessuali di Catania venivano chiamati in città arrusi, o jarrusi: negli anni ‘30 la parola arruso indicava l’uomo che, nel rapporto sessuale, assumeva il ruolo passivo.  Solo i passivi vennero arrestati, mentre chi assumeva il ruolo attivo non subiva alcuna persecuzione perché veniva considerato un “maschio”. Ed è proprio questa la storia che Luana è riuscita a raccontare e diffondere, in un Paese che oggi più che mai di queste storie non vuole saperne nulla.

Quasi tutte le mie ricerche fotografiche riguardano o la storia (in genere del ‘900), o le isole. Sono le mie due grandi passioni, almeno per il momento. A febbraio 2019 sono entrata in una libreria, a Mantova nello specifico, e come sempre sono andata nel reparto storia, alla ricerca di libri che potessero darmi alcune idee per nuovi progetti. Ho trovato un libricino che si intitolava “La città e l’isola”, e ovviamente potete capire che l’ho subito preso in mano. Parlava appunto della storia degli omosessuali di Catania confinati durante il fascismo. Vi giuro che subito in quel preciso momento ho capito che volevo raccontare questa storia con la fotografia, prima ancora di leggerlo.

Poi leggendo il libro (di Giartosio e Goretti, che negli anni ’90 sono riusciti ad intervistare uno dei confinati ancora in vita) ovviamente non ho fatto altro che consolidare la mia idea di farne un progetto fotografico. Io non sapevo nulla di tutto questo prima di allora, non avevo neanche idea che gli omosessuali fossero stati perseguitati e poi confinati durante il regime fascista; è una cosa che sui libri di scuola (almeno 20/25 anni fa, ma mi dicono anche ora) non è mai citata. Si parla sempre degli Ebrei, oppositori politici o qualche altra minoranza come i Rom, ma gli omosessuali non li ho mai visti citati tra i perseguitati

Catania poi è stato un caso eclatante da questo punto di vista perché è stata la città con più arresti per pederastia passiva (l’accusa che veniva data agli omosessuali), con 45 arresti. Mentre le altre città con più arresti sono Venezia e Mantova, che si fermano a circa 8 casi l’una.

Come potete capire non è semplicissimo raccontare una storia in cui i protagonisti sono tutti morti. Il più giovane dei confinati catanesi era del 1920, quindi anche volendo sarebbe stato difficile trovarlo in vita nel 2019. Per fortuna sapevo, grazie al libro “La città e l’isola” che all’Archivio Centrale di Stato a Roma avrei trovato tutti i documenti riguardanti i confinati. Quindi ho deciso di andare avanti con la mia idea di documentare fotograficamente la storia. 

Il mio problema principale è stato reperire i nomi dei 45 catanesi perché nel libro di Goretti e Giartosio i nomi sono tutti falsi, per motivi di privacy. Io inizialmente ho contattato i due autori, ma non ricevuto l’aiuto che speravo. Non mi sono persa d’animo e ci ho provato da sola. Per fortuna nell’autunno del 2019 mi sono trasferita a Roma, e questo è stato indispensabile perché le ricerche in Archivio sono durate due settimane, tutti i giorni. 

Per un caso fortunato un po’ difficile da spiegare qui, sono riuscita a trovare in Archivio da sola tutti i loro nomi e una volta risolto questo grosso problema ho potuto consultare e fotografare le cartelle biografiche dei 45 arrusi (come venivano chiamati in modo dispregiativo gli omosessuali in Sicilia).

Nelle cartelle biografiche ho trovato tanto materiale, oltre alle loro foto, scattate al momento del fermo, ho potuto consultare i verbali di arresto, da cui ho ricavato tantissime informazioni sui luoghi che loro frequentavano a Catania prima di essere arrestati, i referti delle visite mediche a cui erano sottoposti per attestarne la pederastia passiva (in modo ovviamente discutibile e abbastanza arbitrario), le lettere che i confinati e i loro parenti scrivevano per chiedere la grazia.

Grazie a queste informazioni, a Catania ho potuto fotografare i luoghi che gli arrusi frequentavano prima di essere arrestati e a San Domino ho fotografati i luoghi di confino. Da un punto di vista artistico a Catania ho cercato di fare foto quasi sempre di sera o notte perché era in questi momenti che gli omosessuali vivevano la clandestinità dei loro incontri, e invece a San Domino ho fotografato solo di giorno, perché era solo di giorno che i confinati vivevano l’isola in quanto alla sera erano chiusi nei cameroni, da cui erano liberati solo al mattino seguente.

Ovviamente sono stata a Catania e a San Domino varie volte e ho cercato anche di incontrare persone che in qualche modo conoscessero la storia e anche che avessero conosciuto qualcuno di loro sia a Catania dopo il confino o a San Domino durante il confino. Ho trovato in entrambi i casi persone che mi hanno raccontato alcune cose e che mi sono stati di aiuto.

Poi ho fatto una ricerca anche su alcuni oggetti che potevano aiutarmi nel racconto fotografico, come ad esempio uno speculum anale degli anni ’20 che ho trovato al Museo di Storia della Medicina della Sapienza a Roma, e che verosimilmente si avvicina a quello usato per le visite mediche a cui i confinati sono stati sottoposti per attestarne la pederastia passiva, oppure la “carta di permanenza” (un libretto rosso) assegnata ad ogni confinato italiano, e quindi anche ai nostri 45 catanesi, all’arrivo nella sede del confino, e in cui erano presenti tutti i dati del confinato.

Per fortuna ho scattato la maggior parte delle foto e soprattutto ho concluso la ricerca in Archivio prima del marzo 2020, altrimenti avrei avuto grossi problemi e ritardi.

Durante la pandemia ho anche avuto tempo di trascrivere a computer tutte le lettere e i verbali di cui avevo scattato le foto in archivio e questo è stato materiale prezioso per il confezionamento del libro sulla mia ricerca.

Devo dire che in tutta questa ricerca si è incastrato tutto, non ho quasi mai avuto problemi a trovare informazioni e conoscere persone. Si sono verificati un sacco di coincidenze favorevoli che ancora oggi mi fanno pensare che qualcuno da qualche mondo parallelo mi abbia guidato nella ricerca, perché ho sempre trovato tutto e di più di quello che mi aspettavo“.

luana rigolli fotografa isola arrusi
Progetto Isola degli Arrusi di Luana Rigolli

Da questo progetto fotografico è nato anche un libro e abbiamo chiesto a Luana di raccontarci qualcosa in più.

Si, nel 2022 ho deciso di autoprodurmi il libro in 400 copie. Mi sembrava naturale concludere questa ricerca con qualcosa che rimanesse, e quindi ho pensato subito ad un libro. Nel libro si trovano le foto scattate a Catania, a San Domino, alcuni materiali di archivio, e nella seconda parte ci sono tutti i volti dei 45 omosessuali di Catania accostati alla trascrizione di una lettera o al verbale di arresto (in base a cosa fosse più interessante per ognuno di loro).

Come titolo ho scelto di usare “L’isola degli arrusi”, isola perché è stata la destinazione finale del confino, e arrusi perché come dicevo prima è il termine dispregiativo con cui venivano chiamati gli omosessuali in Sicilia soprattutto nel secolo scorso. 

Nella copertina del libro ho cercato di ricreare la forma e la grafica della “carta di permanenza”, il libretto rosso consegnato ai confinati italiani.

Ho usato due tipi di carte, per la prima e la seconda  parte e ho scelto una rilegatura particolare (brossura svizzera a dorso scoperto) per permettere un’apertura delle pagine quasi totale.

Ho fatto tutto da sola: la grafica, la selezione delle foto e dei testi. Sicuramente non è perfetto, ma ho deciso così per evitare di sentirmi dare degli altri rifiuti anche dagli editori, dopo non aver ricevuto risposte dalle riviste. Poteva andare meglio, ma sono contenta anche così”.

Noi vi consigliamo di acquistare il libro e sostenere il lavoro di un’artista come Luana, qui c’è il link!

Il riscontro del pubblico

In noi questo progetto ha lasciato un segno profondo.

Brividi sulla pelle e nel cuore, ma siamo profondamente grate a Luana per averci regalato una delle esperienze artistiche e umane più dense dell’ultimo periodo. E così le abbiamo chiesto qual è il riscontro che sta ottenendo e quali sono le reazioni del pubblico?

Quando ho deciso di portare avanti questo progetto speravo di poterlo diffondere il più possibile perché penso sia necessario conoscere la storia (tra l’altro molto recente e tutta italiana) per non ricadere negli stessi errori. Ma purtroppo fin da subito ho trovato una certa resistenza.

L’ho proposto a tante riviste italiane, tra cui alcune che reputo molto valide, e che leggo tutti i giorni e settimane, e che pensavo potessero essere interessati a questa storia, ma non ho quasi mai ricevuto una risposta, anche se negativa. Niente. Devo dire che quasi nessuno mi ha risposto. Bastava anche un semplice “no, grazie”.

Ma molte redazioni immagino non possano perdere tempo in risposte, lasciando sempre i fotografi (che comunque sono dei lavoratori che a loro sono molto utili) nel limbo, nella incertezza di sapere se la mail è stata letta o meno. Ma finita questa piccola polemica sulle redazioni italiane, devo dire che la storia ha inizialmente avuto molto più riscontro all’estero. La prima mail che ho mandato ad una redazione estera, tedesca in questo caso, è stata un successo, perché mi hanno pubblicato il lavoro subito. Poi sono arrivate anche richieste dall’Olanda (National Geographic). E anche per quanto riguarda le mostre devo dire che l’Italia anche in questo caso (salvo alcune piccole eccezioni) si è svegliata dopo che ho esposto il lavoro all’estero, in Canada, all’Istituto Italiano di Cultura a Montreal.

Da allora oltre a Reggio Emilia ho esposto il lavoro a Bologna, a Roma, e presto in altre città

Purtroppo temo che in Italia le questioni LGBT+ siano ancora messe troppo in secondo piano, e al grande pubblico interessano poco. Oltre che siamo un paese che non ha mai fatto i conti con il suo passato, e in particolare con il ventennio fascista. C’è sempre un po’ la tendenza a passare sopra a storie come questa.

Ovviamente quando espongo questo lavoro la prima reazione delle persone è quello dello stupore, tutti mi dicono che non conoscevano la storia e mi ringraziano. E io ne sono felice, è proprio quello che volevo. Come dicevo è una storia sconosciuta ai più, e nel mio piccolo cerco di fare in modo che più persone ne vengano a conoscenza per avere una maggiore consapevolezza di quello che è stato per evitare che ricapitino cose simili in futuro”.

luana rigolli foto
Progetto Isola degli Arrusi di Luana Rigolli in mostra a Reggio Emilia

Conoscere una fotografa come Luana ed entrare in contatto con la sua capacità di tradurre vicende estremamente complesse in modo così diretto ed empatico, è una grande fortuna. Per questo siamo felici che la mostra si diffonda il più possibile a dispetto delle solite reazioni inadeguate e tardive di tantissimi giornali e riviste italiane.

Fino al 16 giugno L’isola degli arrusi è stata in mostra a Bologna, a Palazzo D’Accursio che è la sede del Comune, in Piazza Maggiore. La mostra doveva terminare il 21 maggio, ma è stata prorogata perché ha avuto successo e piace. Quindi ne sono molto felice.

Poi per il futuro inizio adesso a prendere accordi con altre città, ancora nulla di certo, ma posso dire che le città con cui sono in contatto sono Genova, Savona, Carrara, Macerata e Napoli e vari posti in Sicilia. Quindi incrociamo le dita e speriamo bene”.

Una storia che merita di non essere dimenticata e una fotografa che è diventata portavoce di 45 uomini a cui la voce è stata negata: grazie davvero a Luana per aver condiviso con tutti noi questo progetto.

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