La street art è riqualificazione urbana?

Partiamo da questa domanda consapevoli di non poter dare una risposta esaustiva, quanto piuttosto di creare uno spazio di riflessione su questo tema, che a noi è molto caro.

Se stai leggendo questo articolo i casi sono 2:

  • stavi cercando informazioni proprio sulla street art come strumento per la riqualificazione urbana;
  • conosci già il nostro progetto editoriale e quindi, ti interessa sapere che cosa ne pensiamo.

In entrambi i casi cercheremo di sviluppare questo articolo in modo che possa dare spunti utili in base alla nostra esperienza degli ultimi 7 anni nel campo della street art, che ci ha portate alla scoperta di interventi e progetti in 15 regioni italiane e in gran parti di città in Europa e nel resto del mondo.

street art e riqualificazione urbana copertina
@Alice Vacondio, opere varie a Monaco di Baviera

La prima domanda che ci siamo poste è: ma la street art è sempre stata identificata come riqualificazione urbana?

La risposta è no. Volendo fare un salto indietro nel tempo, la street art (intesa come espressione artistica sui muri) nasce come attività illegale principalmente in spazi urbani e su treni, quindi è esattamente l’opposto. Per decenni i graffiti, ma anche i poster, gli sticker e le immagini figurative non autorizzate sono state identificate come atti di vandalismo e quindi rimosse dalle istituzioni.

Con il tempo e con l’evoluzione del movimento, si è arrivati poi a far “accettare” la street art come arte pubblica e addirittura oggi a farla diventare un forma d’arte su cui investire, sia a livello privato che pubblico.

Negli ultimi anni, quando si parla di street art si tende spesso a fare eco con la riqualificazione urbana, in particolare da parte degli organi di stampa, che avevano la necessità di dare una connotazione differente di questo fenomeno, costruendo una rilevanza ad hoc per il grande pubblico. Non è raro infatti imbattersi in articoli che si riferiscono a progetti di street art come a strumenti per riqualificare per lo più quartieri periferici o borghi abbandonati (che sono tra l’altro realtà profondamente diverse tra loro).

È molto comodo infatti pensare che in un quartiere con un evidente problema edilizio, abitativo e quindi anche sociale, arrivi un gruppo di artisti e, dipingendo i muri grigi, dia nuova vita al tessuto urbano, no?

Il fenomeno della riqualificazione urbana è esploso in particolare quando le istituzioni pubbliche e le aziende private hanno iniziato a capire che la street art poteva essere qualcosa su cui investire. Se da un lato le realtà pubbliche hanno identificato nella street art un fenomeno che aumenta la notorietà e l’interesse di un quartiere, dall’altro i privati che hanno scelto di investire i propri soldi in un’attività di cui beneficia tutta la collettività, cercano un ritorno di immagine.

Questo ritorno di immagine, nel caso specifico della street art, coincide spesso con i leitmotiv della riqualificazione urbana e della sostenibilità.

Il desiderio da parte di realtà pubbliche e private di investire nella street art è stato sicuramente potenziato dall’esplosione dei festival in Italia. Se inizialmente infatti, la street art era caratterizzata da interventi spot o da progetti indipendenti, nel corso degli anni il fenomeno ha iniziato a suscitare sempre più interesse, tanto da vedere dal 2015 in poi una vera e propria fioritura di festival in tutto il paese. Come sempre i risvolti della medaglia sono due:

  • da un lato, questo ha permesso alla street art di uscire dalla nicchia e di raggiungere un pubblico più ampio, aprendo quindi agli artisti una nuova possibile carriera professionale;
  • dall’altro ha lanciato la “festival-mania” spingendo anche realtà che non avevano mai avuto nulla a che fare con la street art e quindi, non avevano competenze in merito, a realizzare interventi senza una direzione artistica e un’integrazione nel tessuto urbano. Questo fenomeno inoltre ha spinto (e spinge tutt’ora) a svalutare anche il lavoro degli stessi artisti, che si ritrovano circondati da open call e festival che non valorizzano neanche a livello economico, l’impegno e il talento creativo.

Giusto? Sbagliato? Non è ancora il momento di trarre conclusioni, il percorso è lungo.

Alla street art quindi è stata conferita ufficialmente la responsabilità di effettuare trasformazioni urbane, sociali, culturali. Di conseguenza agli artisti è stato affidato il compito di “salvare” quartieri e aree urbane, la maggior parte delle volte senza chiedere agli stessi artisti se siano d’accordo con questo enorme e poco realistico carico di responsabilità.

Questa riflessione è nata parlando proprio con alcuni di loro, che con grande sincerità ci hanno detto: “Noi siamo solo qui per pittare un muro, il nostro ruolo è creativo, non siamo qui per salvare nessuno”.

Quando era ancora solo vandalismo

Ma partiamo dall’inizio o meglio, da quando l’equazione corrente non era street art = riqualificazione, ma writer = vandalo.

Il writing (graffittismo in italiano), spesso definito oggi graffiti writing, è un movimento culturale e sociale. Le sue origini risalgono alla fine degli anni ’60 a Filadelfia per svilupparsi come parte della sottocultura dei ghetti di New York negli anni ’70.

I writer sono nati in strada, spesso facevano parte di una crew, e lavoravano principalmente la notte o comunque nascosti perché le loro pratiche erano illegali, usando le bombolette aerosol e dedicandosi al lettering che è lo studio della lettera.

Quello che per molti, ancora oggi, sono dei pocci, in realtà sono frutto di un lungo studio delle forme: per questo ci sono stili tra loro molto differenti a seconda del contesto di origine (noi abbiamo cercato di approfondire un po’ il tema è c’è un universo da scoprire).

Uno dei primi writer che negli anni ’70 ha aperto la strada al graffittismo è TAKI183: grazie al suo lavoro di corriere, che lo portava a spostarsi da un capo all’altro della città, riuscì a scrivere così tanti tag da conquistare l’attenzione del New York Times, che lo rese nel 1971 il grande ispiratore del fenomeno del graffiti writing.

street art riqualificazione urbana opere varie a parigi
@Travel on Art, opere varie a Parigi

Ma da cosa nasce il desiderio di lasciare un segno sui muri?

Oltre ai progetti di rinnovamento urbano statunitense, che all’epoca non facevano altro che essere causa scatenante di una maggiore ghettizzazione in quartieri come il Bronx , gli anni ’70 sono stati anche il teatro di una crisi economica. Il desiderio di ribaltare lo status quo, invece che essere reso in forma violenta, è sfociato in un’energia creativa e autoaffermativa. IO CI SONO: ecco il messaggio, alla faccia del tritacarne stritolatore che la metropoli tendeva a diventare.

E così le pareti di spazi periferici (ma non solo) e le carrozze dei treni sono diventati lo spazio di riappropriazione dei writer che sono stati presto identificati come oggetto di campagne di repressione. Ma tra una fuga e l’altra ci si sfidava a creare stili nuovi, aggiungere sfondi, creare personaggi ispirati ai puppets. Con il tempo i pezzi diventavano più grandi, dettagliati e spesso colorati: a questo proposito ti consigliamo il libro “Subway Art” con la raccolta di fotografie dedicata alla cultura dei graffiti di Martha Cooper, che tra gli anni  ’70 e ’80, ha raccontato con i suoi scatti la generazione dei writer americani.

Quindi, come puoi intuire da questo sintetico racconto del graffittismo, la riqualificazione urbana non faceva parte del racconto dell’immaginario collettivo, anzi, sono stati proprio i disagi provocati dal rinnovamento urbano a provocare parte del malcontento che ha generato queste rivendicazioni.

Le periferie urbane

Ora è arrivato il momento di ragionare su una delle frasi più utilizzate negli ultimi anni:

“La street art riqualifica le periferie”.

Cogliamo la palla al balzo per riflettere sul fatto che il problema delle periferie in Italia è di natura urbanistica e l’arte pubblica ha cercato di sensibilizzare su questo tema dagli anni 60 con happening, performance partecipate e potremmo proseguire per ore.

La politica italiana si è scarsamente occupata dello spazio pubblico. Come è stato perfettamente descritto nel libro “L’arte nello spazio urbano” di Alessandra Pioselli, dagli anni 50 agli anni 70 si sono verificati una serie di fenomeni (abbandono delle zone rurali, repentina industrializzazione, migrazioni di massa verso le grandi città) che hanno modificato il paesaggio in modo considerevole e in assenza di una gestione sostenibile dello sviluppo urbano.

Questa rinuncia alla pianificazione di azioni concrete ha portato poi al dilagare dell’abusivismo, tanto che nel 1969 si è svolto uno sciopero generale dei lavoratori al cui centro era stata messa proprio la questione abitativa. Così gli spazi urbani non solo sono diventati luoghi del conflitto, ma si sono aperti agli interventi degli artisti che si sono messi a diretto contatto con gli spazi che venivano quotidianamente abitati.

Quindi lo spazio pubblico non è diventato una questione artistica con la street art, anzi. E tantomeno la street art ha rivoluzionato il destino di intere aree periferiche abbandonate dalla politica.

E se anni fa, mentre passeggiavamo in alcune di quelle periferie e trovavamo delle opere di arte pubblica, ci confrontavamo su quanto fosse bello che l’arte potesse essere uno spiraglio di luce in mezzo al grigio del cemento, oggi non ne siamo più così certe.

Attraversando alcuni quartieri periferici di grandi città, ci siamo sentite a disagio ritrovandoci davanti ad un’opera muraria esteticamente e tecnicamente ineccepibile, ma completamente decontestualizzata. Perché qual è il collegamento con il reale? Perché ha senso investire economicamente su un progetto artistico fine a se stesso, quando tutto quello che c’è attorno chiede dignità?

In questo, specifichiamo che la responsabilità non è degli artisti che svolgono il loro lavoro (anche se su questo, a livello di addetti ai lavori, ci sono diverse correnti di pensiero e per questo potrebbe diventare il nuovo argomento di uno dei nostri prossimi articoli), ma di amministrazioni, carenti e inefficaci a livello di azioni politiche, che destinano qualche migliaio di euro per fare un’opera e si pavoneggiano con la frase: “Abbiamo riqualificato il quartiere”.

La bellezza non basta a salvare nessuno.

Anche perché quando un artista va a pittare sul muro di un palazzo, sta intervenendo sull’esterno della casa di persone. Non si tratta di una scelta: quando sentiamo parlare di museo a cielo aperto, ricordiamo che in un museo sei tu a scegliere se entrare o meno, se la street art è sul muro di casa tua, non dipende da te e non puoi farci nulla.

Condividiamo queste riflessioni, che sono frutto di anni di viaggi e conoscenze tra città e quartieri di tutta Italia, perché abbiamo vissuto tante esperienze di comunità straordinarie, con artisti che sono diventati parte di un processo di convivenza umana. E si possono davvero creare delle dinamiche che contribuiscono attivamente e realmente, attraverso lo sviluppo di associazioni, progetti sociali o il coinvolgimento di amministrazioni illuminate, a fare la differenza.

Ma può anche non essere così: spesso gli artisti sono solo professionisti pagati per realizzare una committenza, il coinvolgimento con il tessuto sociale non è previsto, l’amministrazione ha solo del budget da investire e, non avendo nessuna azione in programma di medio o lungo termine, fa esaurire tutto con un muro. Esteticamente gradevole, più o meno colorato, ma comunque solo un muro.

Non c’è alcuna riqualificazione o rigenerazione in atto, e sostenere il contrario è falso e illusorio.

street art riqualificazione bombolette sparse germania
@Travel on Art, bombolette Stoccarda

Borghi e spopolamento

Un altro tema che si è sviluppato negli ultimi anni è quello della street art come strumento contro lo spopolamento dei borghi.

Uno dei primi progetti a cui si pensa, noto anche a livello internazionale è sicuramente Cvtà Street Fest di Civitacampomarano, nato nel 2016 con la direzione artistica di Alice Pasquini e con il fondamentale supporto della comunità locale. Non solo il Cvtà, insieme a lui anche progetti come appARTEngo in Basilicata, hanno rafforzato l’idea su larga scala che interventi artistici in borghi delle aree interne possano contribuire a contrastare lo spopolamento endemico a cui sono tutt’ora destinati.

La questione è sicuramente più complessa, perché è chiaro che non basta realizzare un festival, seppur con numerose edizioni, per risolvere un problema come quello delle aree interne.

Entrambi i festival, seppur molto diversi tra loro, sono nati come eventi ma hanno alle spalle una progettualità più ampia e profonda.

Come prima cosa, sia il Cvtà Street Fest che appARTEngo hanno creato, attraverso gli interventi di arte urbana (non solo street art, ma anche installazioni) motivazioni di viaggio forti che convincono non solo turisti local, ma anche stranieri.

Cvtà Street Fest inoltre ha avviato, grazie alla spinta data dal festival, processi che hanno portato alla creazione di servizi turistici che prima non esistevano nel borgo (es. alloggi, info point, ecc.). Grazie a questi servizi, sono nati nuovi posti di lavoro e grazie alla cassa di risonanza del festival, si sono iniziati a creare flussi turistici, prima solo durante i giorni del festival, poi con una stagionalità ben più ampia.

Ora a Civitacampomarano, turisti stranieri iniziano ad acquistare le case del borgo, in stato di abbandono, per ristrutturarle e farle diventare le loro seconde case.

appARTEngo ha seguito una strada differente, perché il suo obiettivo primario è soprattutto quello di lavorare sulla memoria storica del borgo di Stigliano, creando una comunità di artisti e creativi che frequentasse il borgo in ogni momento dell’anno. Non solo artisti che vengono da altre regioni-paesi, ma anche artisti locali, come i fratelli Sansone che interagiscono e spesso fungono da “mentor” dei creativi in visita nel borgo.

Attraverso un programma di residenze d’artista, Stigliano infatti ha creato una vera e propria stagione artistica che va da maggio ad ottobre, con alcune incursioni anche nei mesi invernali, con la direzione artistica di Alessandro Suzzi e il project management di Pietro Micucci.

Quindi la street art riqualifica i borghi? No o almeno, non direttamente, e non dovrebbe essere neppure sua responsabilità farlo, altrimenti non esisterebbe la politica.

Può essere invece uno strumento che, se inserito in una più ampia progettualità di lungo periodo, permette di raggiungere risultati concreti nei territori delle aree interne.

street art riqualificazione urbana bombolette sparse olanda
@Travel on Art, bombolette sparse Eindhoven

Quindi la street art riqualifica o no?

La nostra esperienza nel mondo dell’arte urbana non è certamente esaustiva per conoscere a pieno l’evoluzione e le migliaia di sfaccettature che ha visto e sta vedendo tutt’ora.

È chiaro però che in questi 7 anni abbiamo toccato con mano, visto di persona e ascoltato alcuni problemi che porta con sé il binomio street art – riqualificazione, tra cui:

  • rischio di gentrification di alcune aree urbane particolarmente sensibili, con conseguente aumento del costo della vita per i residenti e quindi un peggioramento della qualità di vita stessa per chi ci vive;
  • interventi completamente sconnessi dal tessuto sociale che entrano di prepotenza in quartieri che vivono situazioni socio-economiche complesse. Un intervento del tutto sconnesso dal territorio in cui viene realizzato, oltre ad essere puro manierismo estetico, è anche pericoloso perché non troverà il consenso di chi lo vive tutti i giorni;
  • strumentalizzazione politica, come detto nel paragrafo precedente, la street art rischia di essere utilizzata come specchietto per le allodole da parte di istituzioni che non si assumono la responsabilità di intervenire in alcune aree urbane, portando servizi necessari per il miglioramento della qualità di vita dei residenti. In sintesi, possiamo cantarcela e suonarcela quanto vogliamo, ma la street art da sola non migliora la qualità di vita di chi vive in un quartiere. L’unica cosa che migliora la qualità di vita sono i servizi e le infrastrutture;
  • greenwashing / pinkwashing / culturewashing e chi più ne ha, più ne metta. Se da un lato è giustissimo che un privato abbia un ritorno di immagine su un investimento, è altrettanto vero che questo ritorno di immagine non debba coincidere con informazioni fuorvianti e pratiche di greenwashing, pinkwashing, culturewashing. Aziende multinazionali e non, che operano tra i settori più inquinanti a livello ambientale al mondo, si promuovono come soggetti che investono nella sostenibilità perché finanziano murales utilizzando pittura ecologica… siamo veramente sicuri che sia questa l’evoluzione che vuole avere la street art? E noi appassionati è questo che vogliamo vedere e farci raccontare?

Le domande che ci siamo poste in questi anni e sulle quali stiamo ancora ragionando sono: siamo davvero sicuri che sia sempre una buona idea fare un murales (per qualsiasi motivo anche il meno nobile, es. greenwashing) al posto di lasciare un muro grigio?

Abbiamo davvero così bisogno di interventi di street art posticci?

E se si risponde sì, che è sempre meglio fare un muro colorato, dov’è il confine tra arte e mera decorazione?

A questo punto ti chiederai che ruolo può avere quindi la street art oggi?

Sempre secondo la nostra esperienza, la street art può risultare uno strumento molto utile per:

  • accendere “lampadine” (es. vedi murales realizzato dal Collettivo FX a Petralia Sottana per instaurare un dialogo con le istituzioni sui tagli alla sanità pubblica);
  • creare riconoscimento (es. abbiamo incontrato tante persone nei quartieri che abbiamo visitato, soprattutto in centro-sud Italia, che con orgoglio dicevano di vivere nella casa in cui era stato dipinto quel murales. Un quartiere può anche iniziare a cambiare immaginario grazie ad interventi di street art, come nel caso della 167 di Lecce con il progetto 167/B Street);
  • avviare processi socio-politici ed economici più ampi (es. i casi dei festival di Civitacampomarano e Stigliano citati in precedenza, ma anche il Draw the Line di Campobasso che ha programmi ambiziosi per il futuro in tema di formazione per i ragazzi e le ragazze delle scuole superiori).

Siamo arrivate al termine di questa lunga riflessione che non vuole essere un assioma, quanto piuttosto un flusso di pensieri finalmente messi nero su bianco, su tematiche sulle quali ci siamo spesso confrontate con artisti, project manager, curatori, amministratori e altri appassionati.

Da anni amiamo viaggiare alla scoperta di luoghi e persone e farlo accompagnate dall’arte ha contribuito a cambiare il nostro modo di osservare. E se siamo qui ora, a riflettere su borghi, periferie, storia, futuro e massimi sistemi, significa che l’arte ha un grande potere, ma non cadiamo nell’errore di considerarla onnipotente.

Articolo scritto a 4 mani da Anastasia Fontanesi e Anna Fornaciari

2 commenti su “La street art è riqualificazione urbana?

  1. monica garraffa ha detto:

    grazie per questo articolo. Porta alla luce aspetti molto interessanti

    1. Anastasia Fontanesi ha detto:

      Grazie a te Monica!

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